Il Prukle di Zidarich suona letteralmente "rock". Vino più che mai figlio
delle pietre, della roccia carsica, del
vento e anche del mare.
Torno
in Friuli e sui bianchi macerati, precisamente in quella terra di confine
conosciuta come Carso, che in questi ultimi anni, sembra aver focalizzato
l’attenzione degli eno-appassionati a discapito del Collio. A me delle tendenze
non mi importa molto, adoro i vini del Collio, così come quelli del Carso, vini
che intrigano per un carattere distintivo unico, che li rende particolari,
originali, espressivi, autentiche cartoline enoiche di un territorio unico e
ricco di mistero.
Tra
i nomi più importanti e conosciuti c’è sicuramente quello della famiglia
Zidarich, comune di Prepotto, nel cuore del carso triestino. Vignaioli da
sempre per usanza locale (<<si beve più di quanto si vinifichi>>) e per fornire le osmizze di paese, é Benjamin insieme alla moglie, che dal 1988 ha
molto investito con grande determinazione nell’azienda paterna, partendo da
quel mezzo ettaro di vigna per arrivare oggi con impegno, determinazione e
indiscusso amore per il Carso e il suo vino, a coltivare 8 ettari di vigneti,
sapientemente reimpiantati nel corso degli anni su terreni di roccia carsica,
ricoperti da un sottile strato di terra rossa ricca di ferro. Un lavoro continuo, nel segno dell’artigianalità
e della continua ricerca della qualità, che ha portato alla nuova “spettacolare”
cantina su più livelli, scavata nella roccia fino ad una profondità di 22 metri.
Una produzione di circa 25.000
bottiglie, con spazio ai vitigni autoctoni di queste zone, vitovska e malvasia,
il terrano, un po’ di sauvignon e merlot. Vini dal carattere distintivo che
esprimono il legame tra l’uomo e il territorio, che raccontano un luogo, la sua
storia, le sue tradizioni, la sua bellezza e il suo “grigio” fascino est-europeo.
La scelta, oggi scontata, rivoluzionaria allora, di trasmettere tutto questo
attraverso vini realizzanti senza scendere a compromessi, sposando la filosofia
“naturale”.
Il
vino che vado a raccontarvi si chiama Prulke, annata 2009, e rappresenta un “bianco
carso” composto dall’assemblaggio di uve bianche, vitovska 20%, malvasia 20% e
sauvignon 60%, provenienti dallo stesso vigneto. Basse rese (40-50 ql/ha) con viti di età
variabile che arrivano fino ai 30 anni. Vendemmia a cavallo tra fine settembre
ed inizio ottobre con produzione limitata a 3000 bottiglie. Fermentazione e macerazione sulle bucce in tini
aperti con follature giornaliere e nessun controllo di temperatura. Lieviti
autoctoni. La fermentazione malolattica avviene in botti grandi di rovere,
mentre l’affinamento in botti medie e grandi di rovere di Slavonia e francese.
Nessuna filtrazione, chiarifica e stabilizzazione in fase di imbottigliamento. Il
Prulke viene commercializzato dopo due anni. 13% di gradazione alcolica e
prezzo in enoteca sulle 25 euro.
Visivamente
nessun dubbio sulla macerazione… consistente, leggermente viscoso, nebbioso… un
giallo oro tendente al ramato. Il vino è intrigante, ricco di sfaccettature,
originale… Naso e palato in simbiosi, ci conquistano a ritmo di rock…
dimenticatevi le rotondità solari a base di frutti in salsa tropicalista, da
queste parti il latino-americano risulta molto più che insopportabile… Qui il
vino viaggia su ritmi tesi e sostenuti, chitarre elettriche, amplificatori
valvolari, suoni dalla texture sgranata dalle suggestioni vintage. Stoner
sound, perché il Prulke suona letteralmente rock. Vino più che mai figlio
delle pietre, della roccia carsica, del
vento e anche del mare.
Vino
fortemente minerale, sapido, quasi salato, leggermente salmastro, non
facilissimo al primo impatto, soprattutto per chi non è abituato ai così detti
vini “orange”. Bisogna abituare il palato, poi sorso dopo sorso si rimane
positivamente colpiti, conquistati, anche se non si beve con la “foga” dei
bianchi beverini e glu glu che rinfrescano nelle calde giornate estive. Non
servitelo troppo freddo… e lasciatevi trasportare… è un vino che affascina con il tempo… continuerete a versarne nel bicchiere, per
gustarlo con calma e lentezza, alla ricerca delle sue particolari e
caleidoscopiche sfumature celate dietro quel muro di roccia, le note agrumate,
la speziatura, i rimandi vegetali di salvia ed alloro. La beva “macerata” nella
presa tannica, nella morbidezza, nelle sensazioni di pienezza, qui è splendidamente
contrastata e rinfrescata da una texture sgranata e da una vena sapido/minerale
a tratti spigliata. Finale lungo e dal retrogusto amarognolo.
Rimane
(argomento già affrontato nei post precedenti) il dubbio amletico sui bianchi
vestiti di rosso… sulla loro “dubbia” capacità di rendere giustizia al vitigno…
ma per oggi non voglio pensarci e godermi a pieno questo intrigante sorso
carsico. Seriamente candidato ad entrare nella top-ten del 2015.
Vi
consiglio uno sguardo al video firmato Mauro Fermariello, dedicato a Beniamino Zidarich che troverete su Winestories …
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