Conosco e bevo "Castello Conti" da alcuni
anni, e provo una profonda ammirazione per i loro vini e per il lavoro
"senza trucchi" di Elena e Paola. Da una recente visita con degustazione
presso la loro cantina di Maggiora, é nata una sorta di collaborazione appassionata,
che mi ha permesso di gustare l'intera produzione di rossi del Castello, che oggi
in questo mega-post ho il piacere di raccontarvi alla mia maniera... Praticamente
cinque post in un uno... quindi mettetevi comodi e buona lettura, giusto il
tempo di accompagnarla ad una buona bottiglia e un buon disco... (se avete in cantina qualcosa
del Castello Conti sarebbe il massimo...)
“Dirò subito che mi considero anch’io, del vino, un
amatore inesperto”.
E’ pur vero che le centinaia di bottiglie scolate, i viaggi nei luoghi del
vino, le incursioni nelle cantine, le fiere, le letture, nonché la volontà di
scriverne per confrontarmi con vignaioli e appassionati più esperti di me, mi
hanno istruito.
E’ altrettanto vero però, che la “materia del vino” è così profondamente
complessa, sfaccettata, ricca di variabili e dettagli, che posso solo osservare
“quanto sia vasta ancora la mia ignoranza, e l’arte del vino quanto
difficile”.
Mi diletto quindi, spassosamente, nell’arte del raccontare
quelle che sono le mie eno-esperienze… “descrivere il gusto di un vino
partendo da se stesso, riferendo le proprie sensazioni con assoluta sincerità,
e confidando che gli altri, al momento buono, provino sensazioni poi non troppo
diverse”.
Confido quindi nella “cultura” del lettore, soprattutto quello meno
preparato, ma che ha il piacere della scoperta e della conoscenza. Quante volte ho sentito professare il proprio gusto nei termini di < che buono il Nero
d’Avola > o < la Bonarda non mi piace >, basando il giudizio su poche
bevute e senza considerare le moltitudini di sfumature e varianti, legate ai
territori, agli uomini, al clima, alla cultura, alla tecnica… Pensate forse che
tutti i Nero d’Avola o Bonarde siano uguali tra loro??
Le esperienze mi hanno insegnato che non c’è errore più grande che tarare
il proprio gusto e il proprio giudizio, basandosi esclusivamente sulla denominazione
di un vino. A suggellare quanto scritto, ecco la Zingara… un rosso da Croatina
in purezza… basterebbe questo per generare in me una sorta di diffidenza e di eno-snobbismo,
rievocando quella miscela colorata e spumosa proveniente dall’Oltrepò Pavese,
che il mio babbo imbottigliava in cantina e che mi diceva essere Croatina
(chissà…)
Ogni sorta di dubbio va a dissolversi dopo i primi sorsi, quando scalzato
il ricordo di quel vino bevuto dal babbo, ritrovo una Croatina ferma, invitante
nel suo colore vivo e concentrato dalle sfumature porpora, che si concede
succosa al gusto e alla beva, nella pienezza del frutto, nel sentore vinoso e
leggermente speziato, nell’ingresso leggermente abboccato che declina in
sensazioni amaro-dolci che lasciano spazio a suggestioni meno solari e più
autunnali, quasi a voler marcare la sua piemontesità. Vino franco, schietto e
scorrevole, supportato da una spiccata acidità che lo iscrivono di diritto
nell’elenco dei vini “glu glu” e che nella sua “naturale” semplicità, trova
un’appropriata collocazione al centro della tavola.
“E’ un vino che consiglierei sempre quando si è in
molti a tavola, e il numero la confusione impedirebbero di assaporare nel
dovuto e religioso silenzio i vini sublimi… quelli che bisogna bere adagio, tra
pochi amici e poche parole”.
Vino simpatico e multicolor, vivo e
giovanile nella sua carica energica, “pop” nel concedersi piacevole anche ai
palati meno fini, altrettanto ideale per chi interpreta il vino con palato
“viziato” da etichette troppo prestigiose, e necessità di rieducarlo al gusto e
al piacere del bere quotidiano.
Lasciamo al Nebbiolo, principe dei vitigni piemontesi, il compito di accompagnare
le pietanze della tradizione e dell’alta gastronomia, così come i momenti di
puro piacere davanti al caminetto. La Croatina delle sorelle Conti, è semplicemente
“Vino Rosso” senza solforosa aggiunta, come natura e uomo sanno creare nel
reciproco rispetto.
Se mi è permesso un consiglio, infilate la bottiglia nello zaino insieme ad
un salame e un pezzo di formaggio, se volete un plaid a quadrettoni, e
godetevela con gli amici, nel piacere della condivisione, durante una
scampagnata fuori città, magari partendo proprio da qui… sulle rive del lago
d’Orta o risalendo verso le pendici del Monte rosa.
Parole rubate a “Vino al Vino” di Mario Soldati
“< Non lo so cosa sia… > sorride piegando il
capo, grigio e d’avorio, l’antico gentiluomo: < …era vino fatto qui.>
Ecco, sarà un caso: ma è questa, questa e non altra, la risposta che ho sempre
avuto dai più raffinati, sia aristocratici sia contadini, quando mi
capitò di assaggiare un vino eccelso.” Tratto da Vino al Vino - Mario Soldati
Questo Origini, è un vino che sarebbe piaciuto molto al “nostro” Soldati.
Che vino sia, l’ultimo nato di casa Conti, esattamente non è dato sapere. E’ semplicemente
vino come si faceva da queste parti una volta… attraverso il recupero delle
vecchie vigne a maggiorina (1), un sistema d’allevamento della vite tradizionale,
in cui i vari vitigni (croatina, nebbiolo, vespolina, dolcetto di boca, uva
rara… e chissà che altro) venivano fatti crescere insieme in un singolo appezzamento.
Alcune di queste vigne passano addirittura i cent’anni di età…
Si tratta quindi di un esperimento, di una sfida dal risultato incognito,
ma alimentata dalla convinzione e dalla volontà, che queste vecchie vigne e
questo tradizionale allevamento, non poteva andare perduto, anzi merita di
essere rivalutato e valorizzato. Come spesso capita in questi casi… quelli che
erano dei punti interrogativi senza certezze, si sono trasformano in
esclamativi… esclamazioni di grande soddisfazione, per aver “ritrovato” così
buono quello che era il vino dei nostri nonni.
Mi accoglie un rosso rubino intenso e luminoso, impenetrabile al cuore… E’
decisamente il vino più “in carne”, soprattutto se messo lì in fila, affiancato
dai nebbioli esili e scoloriti… Spicca, risalta, colora e tondeggia più di
tutti. Annuso veloce e butto giù il primo sorso… Associazione di idee… scrivo
su un foglio la prima parola che mi viene in mente… CONTADINO. Annuso poco,
bevo deciso. Non sono tra quelli che amano stare troppo tempo sul bicchiere. Il
vino si beve, e questo Origini, è proprio un bel rosso vivo, succoso, sanguineo,
solare, dominato da un frutto che sembra appena raccolto dalla pianta, pieno e
maturo, dolce e carnoso. E’ materia gustosa che solletica il palato, mentre
scivola su tannini mai aggressivi, equilibrato da un’acidità viva e ben
integrata, che ne marca il legame indissolubile con il territorio.
Si beve con grande piacere e soddisfazione, non vi basterà un solo
bicchiere, e, parafrasando una famosa pubblicità delle patatine, “se non ti
lecchi le labbra, godi solo a metà!!”. Guardo il foglio e il mio unico appunto…
CONTADINO. Sarà una suggestione collegata alla tradizione della “maggiorina”,
sarà l’assemblaggio di uve come usavano i locali da queste parti, quando la
campagna dominava e quasi tutti avevano un pezzo di vigna, per il vino da bere
in famiglia. Sarà il suo nome Origini, che mi riporta indietro nel tempo quando
il vino era mestiere per contadini e poco si parlava di enologi e agronomi.
Quando il vino non era il risultato di studi e scienza, ma di tecniche e
conoscenze tramandate di mano in mano.
Sarà… ma quello che più mi ha stimolato il termine CONTADINO risiede nel
gusto e nel sapore del sorso. E’ il vino che vorrei trovare tutti i giorni sul
tavolo di casa mia, un vino giovane e semplice, che “viene come viene” e non
obbliga grossi sacrifici economici. Ma poi quando lo bevi, è tutta una goduria!!
Una vera sorpresa… Personalmente lo ritengo la quint’essenza del
vino “naturale”, artigianale, contadino. Ecco quando penso ad un vino
“naturale” penso soprattutto a vini come questi… semplici, ma gustosi, freschi,
succosi, artigianali, rustici, originali. Non sono in grado di spiegarlo a
dovere, ma quando lo bevi si avverte quella autentica sensazione di genuinità,
di natura viva e non morta, di spremuta d’uva. Vorrei perdermi tra i vigneti
senza direzione, fermarmi a chiedere informazioni al primo anziano che
incontro, seguirlo a casa e farmi offrire un bicchiere di vino come questo
Origini.
Bene a fatto Elena a sperimentare, a provare a rifare il vino come si
faceva tanto tempo fa, perché il risultato a mio avviso è davvero interessante,
e sono certo che anche le “sorelle” siano rimaste particolarmente colpite dal
risultato. In futuro, con qualche vendemmia e un po’ di esperienza in più in
fase di vinificazione, potrebbe essere il nuovo vino con cui Castello Conti si
ricollega alla tradizione più rurale, per guardare alle nuove sfide del futuro.
Fermo restando che il Boca non si tocca, questo Origini, è il vino che mi ha maggiormente
coinvolto e colpito.
(1) Cinquant’anni
fa molte colline del novarese erano quasi tutte coltivate a vigna. Le viti
erano disposte alla “Maggiorina”, termine che viene dal paese di Maggiora e che
sta ad indicare la disposizione della vite, su uno schema a filari divisi in
quadrati di quattro metri per lato; al centro del quadrato si trovava un
“ceppo” di vite, formato da due-quattro piantine, che erano sostenute da otto
pali: due disposti al centro del filare, accanto al ceppo, e gli altri sei ai
lati.
Che il nebbiolo sia il vitigno principe qui in
Piemonte è fuori discussione, così come non si discutono le eccellenze
produttive di “luoghi sacri” come Barolo e Barbaresco. Non bisogna però
dimenticare le altre aree più o meno vocate alla coltivazione di questo
vitigno, variabili nel clima, nel terreno, nelle persone, nella storia… in
grado di regalarci vini dalle differenti sfumature, ma sempre di grande
capacità espressiva, a marcare indelebilmente la nobiltà di questa uva. Non
solo Langhe dunque, ma anche il Roero, il Canavese, il Biellese, in parte
l’astigiano, ma soprattutto l’Alto Piemonte, terra vocata alla produzione di
quest’uva, che trova espressione nelle pregiate e longeve denominazioni di Boca,
Ghemme, Gattinara, senza dimenticare le versioni extra-regionali, della Valle
d’Aosta e della Valtellina, dove si dice, il Nebbiolo sia nato.
Le sorelle Conti a Maggiora, coltivano il nebbiolo
dell’Alto Piemonte, che in passato veniva chiamato spanna, quando alle pendici
del Monte Rosa era tutto un fiorire di vigneti, prima che l’industrializzazione
si mangiasse le campagne e che l’orgoglio rurale di molti contadini piemontesi,
fosse imprigionato in cubi di cemento… sacrificio diffuso alla ricerca di uno
stipendio sicuro. Oggi la lungimiranza di qualcuno ha preservato la viticoltura
del nebbiolo anche qui, in quello che oserei definire, un autentico atto
d’amore per la terra e di resistenza all’industrializzazione, e che oggi arriva
nei nostri bicchieri grazie a piccole realtà come le Cantine del Castello
Conti.
E’ anche per questo motivo che qui il nebbiolo ha un
fascino particolare, per le produzioni risicate che li rendono rari e
fortemente territoriali, preservati dalla modernità e dal turismo di massa. Le alpi,
il terreno pietroso di origini vulcaniche, i freddi inverni, si rivelano in
sorsi più vicini alle espressioni montane delle Valtellina che non a quelle più
sudiste delle Langhe.
Questo nebbiolo in purezza ne è dimostrazione diretta,
è vino raro e quasi “anti-moderno”, a tratti scontroso, ma non per una texture
tannica dura e allappante, tipica dei nebbioli da grande invecchiamento bevuti
in gioventù, quanto per una acidità tesa e vivace, che può creare qualche
difficoltà a chi ama i vini tondeggianti e corposi, colorati e calorosi. Qui
non troverete il caldo rifugio di una chitarra acustica, ma l’elettricità
riverberata e ricca di feedback dello shoegazing.
Un nebbiolo giovane quindi, elegante e trasparente
alla vista, fluido e privo di concentrazione, scolorito, esile, quasi fragile
nella mancanza di muscoli. Un vino semplice ma non banale, anzi, decisamente
intrigante, per questa sua particolarità, per una tensione sempre vibrante,
acidula, minerale, rocciosa, fresco e dal frutto croccante. Si beve veloce,
dimenticate qualsivoglia sensazione materica, il palato viene accarezzato, come
se il vino ci scivolasse sopra senza lasciare residui. Non è un vino esplosivo
che impressiona alla prima sniffata, al primo sorso, è vino che ti rimane
dentro quando la bottiglia è finita, quando ti rimangono quelle sensazioni di
fiori appassiti, di profumi antichi, l’immagine della casa dei nonni e del
fattore che arde le frasche.
Sensazioni familiari che ti obbligano ad attirare
l’attenzione dell’oste per chiederne un’altra bottiglia. E’ un vino che per
usare un termine in voga oggi, definirei “vintage”, incastonato tra la fresca
vitalità gioviale e i rimandi di un tempo che fu..
Per meglio cogliere l’essenza del Flores, devo ritornare sulle tracce del
Nebbiolo Colline Novaresi DOC, perché questi due vini sono fratelli gemelli,
con una piccola e “sperimentale” variante adottata da “mamma” Elena…
Semplificando… il Flores nasce nel 2010 da una “costola” del nebbiolo fin
qui prodotto per realizzarne una versione senza solforosa aggiunta. Chi conosce
i vini del Castello Conti, non può che ammirarne la rispettosa “naturalezza”
dell’intero ciclo produttivo, dal vigneto… alla cantina, niente lieviti
selezionati, enzimi, tannini, batteri malolattici, chiarifiche, mosti
concentrati. La volontà di provare a produrre una versione di nebbiolo in
purezza senza aggiunta di solforosa (come già avviene per la croatina Zingara),
va ulteriormente nella direzione intrapresa, che guarda sempre più alla realizzazione
di vini senza trucchi, espressione fedele del territorio, dell’uva, dell’annata
e del suo vignaiolo.
Il risultato, molto interessante, ha trasformato quello che era un semplice
esperimento, in uno dei vini più “alternativi” a firma Conti.
Finalmente, anche per noi “bevitori” curiosi, la possibilità di assaggiare
in sequenza prima uno e poi l’altro, e coglierne le eventuali differenze. Se ne
è discusso fino alla noia di questa solforosa… serve o non serve, fa bene o fa
male, modifica il gusto di un vino o no, etc…etc…. Ebbene io non sono un
salutista, non vado alla ricerca dei così detti “vini naturali” perché fanno
meno male alla salute, ma perché li trovo più “veri” al gusto, e quando li
provi e riesci a capirli, ad entrarci dentro, te ne innamori e non si torna più
indietro!! Non sono nemmeno un “tecnico” per dibattere “scientificamente” e con
cognizione di causa sull’argomento solforosa… Una cosa sola mi interessa
veramente capire da appassionato del gusto… C’è differenza nel bere un vino con
solforosa aggiunta e uno senza?? Ora dopo ripetuti assaggi e confronti tra
questi due vini gemelli, ho la risposta… ed è si… un bel si grande e grosso,
perché la differenza c’è ed è sensibile.
Non mi riferisco a questioni legate alla tenuta del vino o al mal di testa
del dopo bevuta, ma al gusto vero e proprio… a quell’insieme di sfumature e
sensazioni spesso inspiegabili, che si colgono nella maniera più soggettiva
possibile appena infili il naso nel bicchiere.
Per quanto poco qualificata possa essere la mia opinione, direi che pur
mantenendo il carattere nebbioleggiante tipico del vitigno e già riscontrato
nel Colline Novaresi, (quindi vino leggero, scarico, giovane, snello,
minerale…) il Flores l’ho trovato decisamente più energico… forse meno fine,
meno equilibrato, ma più sanguineo, più scalpitante… meno perfetto e scarnificato,
ma più vivo e ruspante, rustico.
Già all’olfatto, lo trovo meno lineare, ma più variopinto, più vinoso a
tratti terroso, così come alla beva, scorrevole e verticale, certo, ma anche
una sensazione di pienezza, ti rimane maggiormente attaccato al palato.
Insomma è come se avesse uno scatto in più… che non significa
“migliore”, ma semplicemente “diverso”. Diciamo che il Flores esce in maniera
più diretta, ti colpisce subito, il Colline Novaresi, prima scoli la bottiglia
poi dici che è buonissimo…
Se il Nebbiolo con solforosa mi ricorda una film dei fratelli Dardenne,
nell’essere scarno, essenziale, diretto… il Flores è più un film alla Kusturica,
variopinto, graffiante, caotico, satirico… Se il primo è un bozzetto nero su
bianco con l’omino “La Linea” di Osvaldo Cavandoli, il secondo è l’omino “Pop”
in multicolor di Keith Haring.
Ad ognuno il suo Nebbiolo, fate il vostro gioco in base al vostro gusto,
con o senza solfiti poco importa, chi conosce i vini di Cantina Conti va a
colpo sicuro.
“Ho smesso di contare le volte in cui, arrivata alla
seconda riga, ho cancellato e riscritto tutto nuovamente. Cercavo un inizio ad
effetto, qualcosa di poetico e vero allo stesso tempo, qualcosa di grandioso,
ma agli occhi.
Non ci sono riuscita.
Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai
saputo: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a
battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari,
armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un
fiore, nascosto, di struggente bellezza”. Frida Kahlo
Di fronte a me la bottiglia svuotata di Boca, un foglio bianco e
un’infinità di pensieri ed emozioni vive, che vorrei riuscire a razionalizzare
sotto forma di scrittura. Ma quando si è al cospetto con qualcosa di “grande”,
si vorrebbero dire tante parole, finendo per rimanere muti. “Ho tutto in testa
ma non riesco a dirlo”… come quella canzone (ovviamente strumentale) degli Afterhours.
Scrivo e cancello… scrivo e cancello… ha proprio ragione Frida, servirebbe
un inizio ad effetto, di poetico e vero allo stesso tempo per descrivere la
grandezza di questo vino.
Ogni riferimento non è puramente casuale… un flashback mi riporta a quel
“Rosso delle Donne” del 2007, bottiglia che acquistai al mio primo incontro con
i vini e le vignaiole di Castello Conti. “Prematuramente” stappai, e ne scrissi
entusiasta nell’autunno del 2012, da poco rientrato da un breve “su e giù”
messicano, concluso alla Casa Azul di Città del Messico, dove visse l’artista Frida
Kahlo.
Rimasi profondamente colpito da entrambi, così distanti ma così
“artisticamente” in grado di suscitare emozioni simili. Sarà una suggestione
“femminista” che mette in relazione Frida e questo Boca “al femminile”… Una
sorta di magnetismo, una forma di attrazione verso quella bellezza culturale,
mai semplice o scontata, spesso controversa e irrequieta, misteriosa e mutante,
sfaccettata. La stessa attrazione magnetica, del “Rosso delle Donne”, di questa
cantina, di questo progetto che unisce in sinergie atipiche vino, cultura,
storia e femminilità… In grado di generare un passionale interesse, stimolandoti
continuamente, nel tentativo, mai pienamente riuscito, di penetravi fino in
fondo e coglierne l’essenza….
Vedere Elena e Paola in cantina estrarre bottiglie di vecchie annate de
loro Boca, mi ricorda quel cassetto da cui mia madre estraeva gli album dei
ricordi di famiglia, immagini ingiallite ma ancore vive di ciò che eravamo. Il
“Rosso delle Donne”, è un vino, un progetto, una storia, una famiglia, un
territorio “di struggente bellezza”. Inutile imbrigliarlo in qualsiasi
resoconto organolettico, “non ci sono canoni o bellezze regolari”, come
potrei descrivere la tridimensionalità di un vino, che a ritroso negli anni si
svela nelle sue caleidoscopiche e multiformi sfaccettature, “che portano ad
illuminare un fiore”?? Lascio volentieri questo compito ai “tecnici” e alle
persone che vivono di certezze, sicuramente più abili di me nel pronunciarsi.
Personalmente in ogni sorso ritrovo il vino figlio del vulcano, con i suoi
nordici tratti distintivi, esile e fragile, quasi sfuggente nella sua spiccata mineralità
incastonata in una struttura imponente, beccheggiante tra suggestioni agrumate
e balsamiche, variabili in un percorso di incredibile e naturale longevità, che
scalfisce il tempo e mi suscita quella stessa “rispettosa” ammirazione che
provo al cospetto di una qualsiasi forma “artistica” che racchiude e racconta
una STORIA . Un vino che poco ha da spartire con il termine “moderno”.
Giovanni Bietti, su “Vini Naturali d’Italia” quando parla dei produttori
piemontesi scrive: “… una sintesi tra natura e cultura e la tradizione di
una data zona riveste grande importanza… si potrebbe dire insomma che
idealmente, per un serio viticoltore piemontese, un vino naturale è un vino tradizionale
fatto bene… il valore di ciò che è stato trasmesso dal padre e dal nonno, il
rispetto e la responsabilità verso il territorio, la memoria dei vini e delle
pratiche contadine di un tempo mi colpiscono come in genere non succede in
altre zone”
Definizione in cui mi ritrovo e che è specchio del lavoro svolto al
Castello Conti. Tra tutte le parole che mi rimbalzano in testa pensando al Boca,
a questo Boca, STORIA è la parola che ritorna più forte e chiara. La stessa
storia, figlia di uno stretto attaccamento alla tradizione vitivinicola, che
trasuda il volto della signora Conti quando mi ha accolto in cantina, mamma Mariuccia.
Preziosa presenza al fianco di papà e “signore del Boca” Ermanno, uomo tenace e
di “piemontese” operosità, capace di attendere anche 10 anni il suo Boca, che
ha saputo superare lo sconforto di tre figlie femmine, in anni in cui, la
viticoltura non era mestiere per donne.
Quella stessa passione per il vino e la tradizione, quel senso di appartenenza
ad una famiglia e ad un territorio che papà è riuscito a trasmettere alle sue
figlie, e che oggi attraverso una viticoltura non interventista e artigianale,
continuano a tramandare anno dopo anno con grande solarità e positività,
caricandosi sulle spalle il peso e la responsabilità di un vino che ha fatto e
continua a fare, la STORIA enologica dell’Alto Piemonte.
Uno sguardo attivo sul passato per andare avanti, con spirito costruttivo e
innovativo, nelle continue collaborazioni artistiche e culturali, che creano
sinergie e coinvolgono gli appassionati, un traino alla rinascita di un’area vitivinicola
di grande vocazione, che ha rischiato di scomparire, e che oggi grazie anche a
realtà come questa, sembra ritrovare nuova linfa.
Il fascino di un territorio ancora poco conosciuto ai più, il piccolo
vigneto, l’esigua quantità di bottiglie prodotte e mediaticamente meno
decantate rispetto ad altre espressioni piemontesi, la possibilità di stappare
ancora vecchie “splendide” annate, ne fanno un vino dallo spirito “indie”, un
vino non sempre facile da trovare, una perla rara da custodire e coccolare.
Un vino culto che ha scritto la STORIA.
il mio primo boca è dell'anno scorso e portava in etichetta 1998...non ingiallisce mai,una storia che si riscrive mantenendosi nei tratti distgintivi inalterata...al Milano wine di quest'anno le sorelle proponevano in assaggio un 1991:micidiale...
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